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FINANZA ETICA E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE – Il capitale che sostiene la società civile e lo sviluppo sostenibile

Glocal Impact Network

Attraverso il percorso che stiamo facendo con il progetto “Monetine”, abbiamo avuto l’opportunità di riflettere sul ruolo della finanza etica all’interno delle nostre vite e del nostro lavoro; di come quest’’ultima sia legata a doppio filo su vari piano di azione: dall’impatto sociale (come potete approfondire qui) fino alla Cooperazione Internazionale, campo in cui Glocal Impact Network è attiva da anni con diversi progetti di sviluppo nel continente africano.
 
Quando si parla di finanza la nostra mente tende a creare pressoché immediatamente alcune immagini, tratte dai media o in generale dall’immaginario collettivo: speculazione, frenesia, wall street e il suo trittico completo-camicia-cravatta con lo sventolio di quotazioni, investimenti e rating. Il classico scenario a cui ormai siamo abituati.

“Se c’è una finanza etica ciò vuol dire che la finanza senza “etica” è, appunto, meno etica o addirittura non-etica? “

Dagli anni ’70 tuttavia esiste un modo di “fare finanza” che si contrappone al precedente, con l’obiettivo di sostenere realtà e progetti a beneficio della società reale, quella che si incontra per le strade quando si esce di casa, di cui si conoscono le storie e le persone, non quella di cui esaminiamo solo i numeri.
 
Si tratta della “finanza etica”, che si pone come alternativa al metodo classico e che fin da subito mi ha fatto riflettere sul termine “etico”. Se c’è una finanza etica ciò vuol dire che la finanza senza “etica” è, appunto, meno etica o addirittura non-etica?
 
Mi sono imbattuto nella citazione dell’economista Jacopo Schettini Gherardini, che risponde in maniera calzante al mio dubbio:

«Dietro questa concezione c’è sicuramente una sfumatura ideologica che antepone l’“etica del capitalismo” (in sostanza il profitto) a un’altra “etica”: il denaro per qualcos’altro (un’ideologia, una religione, un’opinione ecc.). La ragione, comprensibilmente, risiede nell’attitudine di una parte del mondo imprenditoriale a interpretare il capitalismo come una corsa selvaggia al denaro, dimenticando purtroppo che i valori sui quali si fonda sono anche altri.»

Da una parte l’etica del successo a tutti i costi, in cui ogni mezzo è lecito per vedere in crescita costante il proprio potere economico; dall’altra un’etica che non genera introiti economici dalla speculazione bensì dal sostegno a realtà imprenditoriali e lavorative con effettive ricadute sul territorio e un potenziale miglioramento per la società in aggiunta al singolo beneficiario.
 
In estrema sintesi, si tratta di anteporre l’individuo e la comunità al profitto.
La finanza etica si divide sostanzialmente in due aree: una dedita al microcredito, l’altra basata sull’investimento etico.

“...i microcrediti di questo tipo vantano un rating di restituzione spaventosamente alto, qualcosa che i maggiori istituti di credito non possono neanche prendere in considerazione: si parla del 98,75%”

Il microcredito nasce negli anni ’70 grazie all’intuizione del bengalese Prof. Muhammad Yunus.
Con la sua Grameen Bank, Yunus è riuscito a consolidare un sistema di microprestiti istituendo una vera e propria “banca dei poveri” dove anche gli ultimi hanno accesso al credito per finanziare piccole attività.
Lungi dall’essere una pratica di assistenzialismo (i prestiti vengono comunque vagliati dal personale altamente qualificato della banca), i microcrediti di questo tipo vantano un rating di restituzione spaventosamente alto, qualcosa che i maggiori istituti di credito non possono neanche prendere in considerazione: si parla del 98,75%.
 
La chiave di volta di questi dati eccezionali risiede nel target dei prestiti, ovvero i poveri e tra i poveri specialmente le donne. Una volta ricevuto il prestito, data la loro situazione economica e la chance che gli è stata riconosciuta, i beneficiari sentono una pulsione “etica” o morale a restituire il debito, rivelandosi dei pagatori ben più affidabili dei debitori appartenenti alle fasce più abbienti di popolazione.
Così facendo si vanno a stimolare quelle “comunità sommerse” che faticano a produrre o comunque a integrarsi nel mercato locale, trovandosi spesso ad essere unicamente un peso per la comunità.
 
Per ciò che concerne l’investimento etico, la “finanza etica” è particolarmente propositiva anche a sostegno degli enti del terzo settore, dando la possibilità a organizzazioni che lavorano nel campo dello sviluppo sostenibile, dell’ambiente, della cooperazione internazionale e della cultura, al fine di portare avanti i propri progetti.
 
Questa pulsione nasce dalla convinzione che si crei un effetto domino dal micro al macro: l’investimento che coinvolge le singole attività può scalare e andare a toccare il contesto più allargato, sia esso rurale o urbano, migliorando la qualità della vita delle persone e non semplicemente il loro portafoglio. Con gli investimenti etici, l’istituto finanziario dà la possibilità al cittadino di vedere i portafogli derivanti dai propri investimenti/risparmi utilizzati per sostenere iniziative, progetti, realtà al servizio della società che generano cambiamenti positivi a distanza; come espresso da Gabriele Guglietti, responsabile delle relazioni internazionali per Banca Etica:

“perché il bene comune sia sempre più comune e l’inclusione sia una opportunità offerta a sempre più persone”

E’ proprio il caso dei finanziamenti etici per la cooperazione internazionale, che permettono agli enti del terzo settore di allocare e gestire risorse per progetti a breve-medio-lungo termine, come conseguenza della necessità di affrontare le sfide globali in una guerra a tutte le latitudini al riscaldamento globale e al cambiamento di equilibri che esso comporta.
 
Proprio nei contesti del sud del mondo, che in prima linea stanno sperimentando le gravi conseguenze che questi cambiamenti comportano (pur essendone responsabili in minima parte), gli investimenti etici vanno a cambiare le condizioni di base per poter stimolare business sociali su base locale e combattere l’urbanismo, la deforestazione, l’assenza di impiego o di servizi e più in generale la povertà.
 
All’interno di questa azione di sostegno internazionale alle comunità vi sono due approcci che coesistono: da una parte, la logica bottom-up che nasce nelle singole comunità e partendo da quei “micro-bisogni” sviluppa una strategia e un processo in grado di far fronte al problema in maniera sostenibile e durevole nel tempo, dall’altra l’approccio top-down dei grandi capitali provenienti da Paesi stranieri o grandi organizzazioni che sono in grado di fare pressione sulle politiche nazionali del Paese beneficiario.
Non sbagliamo, i capitali sono già stati ampiamente utilizzati in passato come strumento di pressione e lobbying, soprattutto con Paesi in Via di Sviluppo, con fini tutt’altro che etici; tuttavia è innegabile che una tale quantità di risorse celi un potenziale importante per generare cambiamenti radicali in un Paese.

“La condivisione di know-how e buone pratiche tra Paesi e contesti diversi è la chiave di volta per generare impatto sistemico con conseguenze positive nel medio-lungo termine.”

Vi sono diversi organi di controllo per amministrare questi fondi con task, deadline e obiettivi da raggiungere in tandem con personale locale, straniero e terze parti coinvolte come organo di controllo.
Ad esempio, l’AICS (Associazione Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo) esercita un controllo indipendente sui progetti che passano attraverso l’associazione, garantendo un accompagnamento e una valutazione in più fasi del progetto per tenere traccia dei cambiamenti, risultati raggiunti e problematiche.
È naturale che sorga dello scetticismo a riguardo degli investimenti di questo tipo, tuttavia investire nel sud del mondo e supportare la cooperazione internazionale è un’occasione unica.
In questo modo è possibile portare cambiamento in contesti che sono spesso una “tela bianca” dove mancano quasi totalmente servizi e sviluppo. Partendo da zero è possibile supportare buone pratiche così da mettere a disposizione della società tutti gli strumenti necessari per guidare il processo di sviluppo in maniera sostenibile fin da subito, senza passare dal lento e impattante processo di sviluppo che ha interessato i Paesi sviluppati.
 
La condivisione di know-how e buone pratiche tra Paesi e contesti diversi è la chiave di volta per generare impatto sistemico (economico-sociale-ambientale) con conseguenze positive nel medio-lungo termine.
 
La lotta al riscaldamento globale parte proprio da questi contesti ed è necessario unire gli sforzi di tutte le latitudini per combattere da Nord a Sud, dal micro al macro, questi stravolgimenti che determineranno il futuro prossimo del Pianeta.

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